• Guadagni dalle fake news: come si creano le bugie da monetizzare 
  • Economia delle fake news: chi ci guadagna davvero? 
  • Disinformazione online: vantaggi, numeri, settori 
  • Economia della disinformazione: uno strumento per difendersi 
  • Guadagni dalle fake news: come si creano le bugie da monetizzare 
  • Economia delle fake news: chi ci guadagna davvero? 
  • Disinformazione online: vantaggi, numeri, settori 
  • Economia della disinformazione: uno strumento per difendersi 

Fake news più redditizie della verità? Quanto costano (e fanno guadagnare) le bugie online

Le news di ExpressVPN 01.08.2025 8 mins
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Written by ExpressVPN
Fake news più redditizie della verità? Quanto costano (e fanno guadagnare) le bugie online

Nel mondo digitale una bugia paga più della verità. Sembra assurdo ma è proprio così: una fake news può portare molti più guadagni di una notizia autentica. Per capire le ragioni di questo fenomeno è necessario addentrarsi nel complesso funzionamento dell’informazione online: in questa macchina a tratti oscura l’ingranaggio più prezioso è l’attenzione dell’utente. Un labirinto di clic, algoritmi e pubblicità, in cui ogni frottola virale ha un preciso ritorno economico. 

Il problema più serio in un simile scenario è che la verità costa di più e rende di meno: un giornalismo giudizioso, deontologicamente lodevole, fondato su inchieste, fonti verificate e fact-checking, è più lento e oneroso, meno altisonante. Le fake news, d’altro canto, si basano su un modello di business semplice ed efficace: finché il web premierà il contenuto più cliccato e non quello più veritiero le invenzioni continueranno a proliferare. Si tratta di prodotti in piena regola, alimentati da un motore invisibile ma fondamentale: la raccolta dei dati. 

E così, le bufale si trasformano facilmente in esche per sottrarre informazioni al malcapitato di turno. Ecco allora che la VPN Italia diventa uno strumento di difesa attiva non solo contro la manipolazione, ma anche per la privacy in senso stretto. Una Virtual Private Network nasconde l’indirizzo IP, impedendo agli hacker di risalire alla nostra posizione o identità, criptando persino il traffico dei dati inviati e ricevuti e ostacolando così la raccolta di informazioni da parte di siti e tracker. In altre parole, interrompendo quella profilazione che la disinformazione cerca di costruire, la VPN ci rende meno “redditizi” per il business delle fake news. La sfida, come vedremo, non è solo tecnologica o economica ma in primis culturale: siamo disposti, come lettori, ad abbracciare la realtà anche se meno emozionante? In caso di risposta negativa rischiamo di continuare a pagare, con soldi e fiducia, il prezzo delle falsità dilaganti. 

Guadagni dalle fake news: come si creano le bugie da monetizzare 

Prima di approfondire chi trae guadagni concreti dalle fake news è interessante chiarire il processo di creazione delle stesse. Il primo anello della catena è spesso un individuo o un piccolo gruppo con scopi precisi: sicuramente un tornaconto economico ma anche motivazioni ideologiche, disinformazione intenzionale o semplice “trolling”. Può trattarsi di blogger, content creator, piccoli editori digitali, gruppi organizzati abili a sfruttare la viralità della Rete: tra le tematiche più calde troviamo politica, salute, immigrazione, guerra, vaccini. Una volta pubblicata, la notizia ingannevole finisce puntualmente condivisa sui social, spesso accompagnata da immagini scioccanti e titoli clickbait. 

Sul sito originario non mancano banner pubblicitari come quelli di Google AdSense. A partire da ogni clic o impression, ossia ogni qualvolta un annuncio viene mostrato sullo schermo di un utente anche se non c’è interazione, si genera un piccolo profitto – da pochi centesimi a qualche euro – per il proprietario del sito: chiaramente, un maggior traffico corrisponde a più incassi legati alla pubblicità. Come se non bastasse, se il contenuto ottiene molte interazioni, gli algoritmi di piattaforme come Facebook finiscono per “premiarlo” mostrando la notizia a più utenti. Ne scaturisce un circolo vizioso a tutti gli effetti: l’engagement guida la visibilità che genera nuovi clic, che portano a loro volta più soldi. A fronte di un costo basso, in sostanza, una fake news ben piazzata può arrivare a fruttare milioni. 

Economia delle fake news: chi ci guadagna davvero? 

Alle spalle di questo processo non c’è un solo “colpevole” ma una rete di grandi e piccoli attori: ciascuno, a modo proprio, monetizza attraverso la disinformazione. Da personaggi a gruppi social, da aziende che vendono prodotti guidati da logiche di allarmismo sino a politici o gruppi ideologici, che sfruttano le notizie false per manipolare l’opinione pubblica: sono in tanti a guadagnare da questo subdolo meccanismo. Le stesse piattaforme come Facebook, YouTube, X e TikTok, pur non “mentendo” in prima persona, incassano da ogni visualizzazione e interazione. Ne consegue una dura realtà: finché le bugie genereranno engagement non esisteranno stimoli effettivi ad eliminarle in modo efficace. Quello che conta alla fine è quanto tempo l’utente medio trascorre online, di quanti like, condivisioni o commenti è protagonista, e non che un contenuto sia vero o meno. In tal senso, uno studio del Center for Countering Digital Hate è significativo: si stima che YouTube incassi oltre 13 milioni di dollari all’anno solo da video che diffondono fake news sulla questione climatica. Ciò non fa che incentivare la creazione di contenuti sensazionalistici per attirare pubblico. 

Ad animare ulteriormente il mercato della disinformazione ci sono poi figure ibride tra imprenditori e influencer, spesso molto ricche: possiamo chiamarle i “venditori di verità alternative”. È il caso di un noto conduttore radiofonico statunitense, fondatore di un portale che rilancia diverse teorie complottistiche. Il sito non si limita a “spararle grosse”: vende a tutti gli effetti prodotti come pillole antinvecchiamento, filtri per l’acqua, integratori “antiveleni”. Secondo alcuni documenti processuali questo business avrebbe generato oltre 165 milioni di dollari tra il 2015 e il 2022, facendo leva su una disinformazione a suon di video da milioni di visualizzazioni. Analogo è l’esempio di un osteopata anti-vax che ha costruito un impero vendendo integratori “naturali” e altri gadget per il benessere. Stando ad un’inchiesta del New York Times, questo professionista americano avrebbe guadagnato oltre 7 milioni di dollari solo nel 2020, cavalcando il panico da Covid-19 e diffondendo inesattezze sui vaccini. La disinformazione, insomma, è solo un’esca: il vero core business è un altro. 

Le fake news, tuttavia, non si pongono soltanto l’obiettivo di vendere: servono anche a convincere, polarizzare, mobilitare. Durante diverse campagne elettorali sono stati documentati casi di azioni coordinate per diffondere falsità politiche e creare caos. I promotori? Gli stessi partiti, gruppi ideologici, persino potenze straniere, che hanno usato la disinformazione per destabilizzare l’elettorato. In questo caso il profitto non è direttamente economico ma si traduce in potere, consenso, influenza da parte di chi detiene il controllo. 

Disinformazione online: vantaggi, numeri, settori 

Come abbiamo visto, la disinformazione online trova nelle dinamiche del web un ambiente favorevole perché i contenuti sensazionali ottengono molto più engagement. Per esempio, un articolo della rivista Science riporta che le bufale vengono retwittate mediamente il 70% in più, trovando diffusione dalle dieci alle venti volte più in fretta rispetto alle notizie vere. A proposito delle entrate pubblicitarie generate da ogni clic un report di NewsGuard, organizzazione che monitora la disinformazione online, stima che su un totale di 155 miliardi di dollari di spesa pubblicitaria programmatica mondiale, circa l’1,68% finisce su siti disinformativi. All’atto pratico, questa percentuale corrisponde a circa 2,6 miliardi di dollari l’anno. Tra gli oltre 6.700 portali monitorati da NewsGuard tra Europa e Stati Uniti sono ben 519 i siti macchiatisi di una regolare diffusione di informazioni infondate, soprattutto su Covid-19 e vaccini. Ciò significa che circa il 7,7% dei siti di notizie più seguiti rilancia contenuti dannosi: tra questi ce ne sono 41 anche in Italia. 

Come si evince dalle argomentazioni affrontate finora, la recente pandemia da Coronavirus ha rappresentato un terreno fertile per le teorie cospirazioniste, tra ipotetiche cure “naturali” miracolose e presunti complotti delle case farmaceutiche. Oltre ai ben noti casi di politica e propaganda, dunque, l’ambito sanitario ha spalancato la porta a ciarlatani di vario genere. Il caso già citato dell’osteopata Usa è indicativo: secondo il Center for Countering Digital Hate, questo guru sanitario e pochi altri disinformatori anti-vax, seguiti da un totale di 62 milioni di follower, generano oltre 1,1 miliardi di dollari annui tra pubblicità online e video sponsorizzati. Il meccanismo è sempre il solito: si parte da una strampalata teoria anti-vaccini (“i lettini solari prevengono il Covid?”), veicolata tramite siti, video e newsletter, ma il vero incasso proviene dalla vendita di integratori “miracolosi” e abbonamenti. I profitti alimentati da clic o acquisti si possono tranquillamente paragonare a quelli di una piccola casa farmaceutica. Questo ha conseguenze gravi anche sul piano sociale: simili allarmismi premiano la paura e non la prudenza. 

Un altro dei settori più colpiti dalla disinformazione è senza dubbio quello del cambiamento climatico. Una tendenza emergente è rappresentata dai cosiddetti “nuovi negazionismi”: anziché negare il riscaldamento globale in sé, sotto la lente d’ingrandimento finiscono le soluzioni adottate, come ad esempio presunti agenti inquinanti delle auto elettriche oppure impianti eolici che terrorizzerebbero irrimediabilmente la fauna. Anche in questo frangente l’impatto sociale è rilevante: la diffusione di informazioni false frena la coscienza collettiva, confonde le persone, semina dubbi, rallenta le decisioni. 

Economia della disinformazione: uno strumento per difendersi 

Ricapitolando, tutti i casi citati si rivelano emblematici su come il modello di business del web incentivi la disinformazione. Le fake news costano pochissimo, non richiedono giornalisti o un controllo editoriale, eppure ottengono coinvolgimento e ricavi superiori ai media professionali. Il vero problema è che ogni centesimo speso in ads su siti pretestuosi finisce di fatto per moltiplicare le menzogne. Laddove la visibilità equivale a denaro la verità assoluta fatica a competere: richiede tempo, competenze e risorse per essere verificata. Serve un cambio di rotta netto e risoluto: finché l’economia digitale sarà legata a logiche di clic ed engagement, le fake news continueranno a rivelarsi molto più redditizie di qualsiasi verità oggettiva. 

La proliferazione delle notizie false, in definitiva, è nutrita da un circolo di dati, profilazione, pubblicità mirate. In Paesi dove la libertà di stampa è limitata, inoltre, le illazioni diventano strumenti di regime o proselitismo. E così la VPN è spesso l’unico modo per accedere a fonti attendibili aggirando blocchi, filtri e limitazioni, e per districarsi in un web meno influenzato da geolocalizzazione e “bolle algoritmiche”. Si tratta insomma di un’autentica forma di difesa personale contro la manipolazione informativa: proteggendoci dai tracciamenti una VPN ci rende meno vulnerabili, ci restituisce libertà di accesso, di pensiero e di scelta. In un mondo dove la verità ha sempre più bisogno di protezione, la VPN è un alleato silenzioso ma essenziale. 

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